Ecstatic MaDchester – 1a parte

ecstasy_pill_collage1Era il 18 maggio 1980 quando Ian Curtis venne trovato morto, con una corda appesa al collo, nella sua abitazione. Lo stesso giorno Bernard Sumner, Stephen Morris e Peter Hook decisero di sciogliere i Joy Division, la band che più di ogni altra si era resa simbolo del periodo di una città in grossa difficoltà, schiava della nuova politica intrapresa dal Primo ministro britannico Margaret Thatcher. I giri di basso cupi e plumbei di Hook accompagnati dalla voce baritonale di Ian Curtis che recitava i suoi versi intrisi di un esistenzialismo tanto profondo quanto senza speranza, furono la colonna sonora di una città grigia che andava deprimendosi sempre più per via di un tasso di disoccupazione crescente a livello esponenziale che aveva gettato nella crisi più buia la classe operaia. Sumner, Morris e Hook dopo un breve periodo di pausa formarono i New Order, pur essendo consci che andare avanti dopo la morte del loro membro più carismatico nonchè figura centrale di un’intera città, era un po’ come lottare contro le leggi della natura. Poteva francamente apparire inimmaginabile l’ipotesi che quei tre ragazzi avrebbero assunto ancora una volta lo status symbol di un altro periodo celebre della città mancuniana, quello della rinascita.

I New Order dopo un titubante inizio ancora legato all’esperienza musicale appena trascorsa, traghettarono il post-punk dei Joy Division verso lidi più eterei, l’oscuro basso di Hook aveva preso a duettare con tappeti di synth malinconici ma mai opprimenti, anzi il contenuto dei loro pezzi aveva lasciato del tutto toni impegnati o esistenziali per assumere sonorità vicinissime alla musica dance, come può testimoniare il loro primo grande successo, “Blue Monday”, il singolo più venduto nella storia della musica inglese, pezzo anthemico ancora oggi nei club di mezzo mondo. La metamorfosi da tenebroso gruppo post-punk a gruppo ideale per le feste e il divertimento fu completata sul finire degli anni Ottanta, in seguito alla pubblicazione dell’album “Technique”, inarrivabile punto d’incontro di filosofie musicali agli antipodi, tra rock e house, tra chitarre e batterie elettroniche, tra introspettiva decadenza e superficiale leggerezza. Ma come si era potuti arrivare nel giro di un solo decennio ad una trasformazione tanto radicale?

Verso la metà degli anni Ottanta Manchester era alle strette. I tagli al sistema assistenziale e ai sindacati, la definitiva chiusura del Consiglio della Contea di Greater Manchester, la fortissima politica conservatrice del governo Thatcher dedita a stringere quanto più possibile la cinghia a tutti i cittadini, avevano portato sull’orlo del baratro una città che fino ad allora aveva fatto del sistema industriale l’unica ragione di vita. I capannoni venivano lasciati al loro destino, quello di testimoniare lo stato di abbandono di un territorio in forte depressione. Molta gente scappava, tentando la fortuna a Londra. Persino nel calcio quelle che fino agli anni Settanta rappresentavano due delle più grandi potenze del football inglese erano in netta discesa, con il City che faceva da ascensore tra First e Second Division e lo United che faticava ad affermarsi avendo in panchina il poco convincente allenatore scozzese Alex Ferguson. Nonostante molta gente lasciasse la città, tanta altra ne arrivava, tutti giovani studenti universitari provenienti da ogni angolo della Gran Bretagna, che vedevano comunque in Manchester il logico approdo per chi cercava sballo e droga. I quartieri di Moss Side e di Hulme divennero ben presto le zone più famigerate della città, essendo quelle in cui facilmente si trovavano case ormai disabitate e affittabili senza spendere un soldo, una sorta di paradiso per studenti e spacciatori, che quindi si trovavano a vivere insieme, di sicuro con molto poco dispiacere sia da una parte che dall’altra. Tutto ciò rese Manchester una città polietnica, un crogiolo dove si miscelavano tante culture diverse che furono evidenziate dal fervore musicale che si stava impadronendo della città. C’erano i bianchi, figli del punk e del post-punk, e c’erano i neri, discendenti del funk, del soul e della disco, che stavano introducendo le loro nuove creature, l’hip-hop dapprima, manifestatosi grazie alle acrobatiche mosse dei ballerini breakdance rintracciabili per le strade di Manchester, poi con la musica house, importata direttamente dagli States. I neri avevano portato in città un nuovo vento, che sapeva tanto di rivoluzione, e di lì a poco qualcuno ne avrebbe riconosciuto la potenziale portata.

Manchester aveva una buona tradizione di club, poteva vantare della presenza di luoghi sacri per il settore, quali l’Exit, il Deville’s, l’Heroes e Il Berlin. Ma il grande passo avanti lo si ebbe dopo la costruzione della Fac 51, il night club di proprietà della Factory Records, etichetta dell’eccentrico giornalista Tony Wilson, curatore di alcuni bislacchi documentari per il telegiornale di Granada Television, e che aveva sotto contratto alcuni gruppi quali i New Order, i Section 25 e gli A Certain Ratio. La Fac 51 prese il nome di Haçienda. Situata strategicamente a pochi passi dal quartiere di Hulme, la Haçienda divenne il punto di ritrovo per tutti i giovani del luogo. Ai concerti settimanali, si alternavano nel weekend le Nude Night del dj Mike Pickering, che aveva ben compreso quanto quella musica proveniente dagli USA potesse diventare irresistibile attrazione anche per i bianchi e non solo per i neri. La Haçienda, costruita in uno stile architettonico che ricordava proprio i club newyorchesi, riuscì a far coesistere per la prima volta culture musicali estremamente diverse, era un locale per chi amava pogare e per chi amava ballare, sino a far sposare le due filosofie nello stesso preciso momento. Punk, hip-hop, psichedelia, house, non c’erano barriere di genere, l’Haçienda proponeva una sorta di peculiare mix fra tradizione british e nuove correnti musicali d’oltreoceano, riuscendo a lanciare una nuova generazione di gruppi rigorosamente mancuniani che suonavano quell’assurdo melting pot. Era nata l’era Madchester.

Gli Happy Mondays furono uno dei gruppi di maggior successo della Factory, nonché il gruppo di riferimento quando si parla del movimento Madchester, ma possono fregiarsi anche del titolo di essere stati i primi a trattare nelle loro canzoni temi da working class facendone effettivamente parte, tant’è vero che i componenti dei Mondays avevano passato un’adolescenza nella quale il passatempo più divertente era l’avvelenamento di topi. Dei teppistelli insomma, degli “Scally” per dirla all’inglese, che a Manchester venivano comunemente soprannominati “Perry Boy”, termine preso in prestito dalle magliette Fred Perry, le stesse che gli hooligans indossavano negli stadi. Nessuno dei componenti degli Happy Mondays aveva particolari qualità musicali, anzi, si può benissimo affermare che nessuno di loro aveva mai visto da vicino uno spartito. Il clamoroso successo che riscontrarono fu dato in particolar modo da tre fattori: il primo è sicuramente il carisma del frontman Shaun Ryder, personaggio tra i più allucinati che la storia della musica possa ricordare, un cantante con zero talento che sciorinava i suoi versi in uno stile che appena vagamente poteva ricordare il rap, ma che di certo rap non era. Il secondo fattore fu la presenza di Mark Berry, conosciuto da tutti come Bez, uno sgraziatissimo ballerino sotto effetto di Ecstasy che una volta salito sul palco si contorceva su sé stesso dall’inizio alla fine dello show sbattendo le maracas, coinvolgendo il pubblico a lasciarsi andare come faceva lui. Il terzo e ultimo fattore, forse il più importante, era proprio l’impegno con cui si prodigava il gruppo nello smerciare l’Ecstasy tra la folla, in modo tale da poter condividere completamente l’esperienza del concerto, che prendeva sempre più la forma del rave. I Mondays hanno anche avuto la fortuna di potersi avvalere di alcuni dei produttori migliori della loro epoca, da Martin Hannett con cui registrarono “Bummed”, a Paul Oakenfold con il quale realizzarono il loro capolavoro “Pills ‘N’ Thrills & Bellyaches”. Le sedute di registrazione di entrambi i dischi sono state svolte in un clima di assoluta e delirante baldoria, che in un modo o nell’altro è stata catturata per poi essere riprodotta musicalmente. Gli Happy Mondays, nonostante tutti i loro limiti, suonavano veramente come qualcosa di originale e trascinante.

La droga, come già detto, giocò un ruolo fondamentale nella storia di Madchester. Molti artisti trascorrevano qualche settimana di vacanza ad Ibiza e, come nel caso dei New Order, tornavano in terra albionica completamente trasformati, dopo una cura a base di Ecstasy, Balearic House e danze prolungate 24 ore su 24. Con lo stesso spirito a Manchester accolsero l’arrivo della cultura rave, ci si rinchiudeva nei club, ci si calava di Ecstasy, si iniziava a ballare e si smetteva la mattina dopo, esausti ma appagati dell’esperienza. Assumere l’Ecstasy significava andare incontro alla quintessenza della filosofia Madchester, l’essere “Loose”, ovvero, sciolto, libero, senza freni insomma. Era “Loose” il mirabolante crossover proposto dai gruppi del movimento, era “Loose” abbandonare momentaneamente il mondo e il proprio corpo (e di conseguenza tutti i problemi) per ballare fino alla sfinimento, ed era “Loose” anche l’abbigliamento che doveva essere adatto per sostenere le danze non stop, aprendo la strada al boom del vestiario abbondantemente largo, come le felpe con il cappuccio, i camicioni con maniche lunghe e il rispolvero dei giganteschi pantaloni a zampa d’elefante. Non mancavano magliette e camicie dalle vistose tinte flower power, ottime per aggiungere un tocco di psichedelia in più alla festa. L’atteggiamento criminale che aveva animato le violente sommosse anti-Thatcher della prima parte del decennio, aveva lasciato il posto ad una nuova cultura della positività, che tanto ricordava quella della stagione sessantottina. Ora gli hooligans entravano negli stadi senza più pretese di devastazione, anzi, era possibile vedere rami di tifoserie opposte, calate di Ecstasy, abbracciate tra loro e che inneggiavano a squarciagola alla bellezza dell’amore. Fu di fatto la fine della cultura hooligan in Inghilterra, merito che ovviamente nessuno avrebbe potuto conferire all’Ecstasy, figuriamoci la Lady di Ferro che preferì attribuire a sé stessa e alle squadre di polizia presenti negli stadi la maternità dell’impresa compiuta, quando in realtà l’unico risultato raggiunto in quegli anni, era stato aver installato un clima di terrore che provocò immani tragedie come quella dell’Hillsborough Stadium a Sheffield.

In questo contesto fu determinante lo sviluppo della musica Acid House inglese, che aveva visto in Gerald Simpson, meglio noto come A Guy Called Gerald, il primo promotore. Gerald fece parte per breve tempo di un progetto sperimentale del suo amico Graham Massey, gli 808 State. I due erano clienti abitudinari dell’Eastern Bloc Records, negozio che proponeva tutte le novità indie e dance del momento, soprattutto quelle non ancora conosciute. Fu probabilmente ascoltando questi dischi che Massey scoprì che dalle parti di Chicago e Detroit, molti dj avevano cominciato a sfruttare nella maniera migliore possibile il Roland TB-303, sintetizzatore di basso ritenuto difettoso, ma rilanciato alla grande negli USA per ottenere composizioni oltre il limite della visionarietà, quasi fossero la rappresentazione di uno stato mentale allucinato, o per meglio dire, acido. Congedatosi Gerald Simpson, Massey portò avanti il progetto 808 State insieme ad Andrew Barker e Darren Partington, tirando fuori qualunque suono i sintetizzatori Roland fossero in grado di elaborare, in particolar modo dalla drum machine TR-808. L’impatto che gli esperimenti di Massey&Co. ebbero sulla scena musicale del momento e sulle generazioni future fu clamoroso.

Le contaminazioni elettro-dance del periodo avevano influenzato in maniera così importante la musica pop, da portare alla nascita di un vero e proprio genere che verrà chiamato baggy. Tutti quei gruppi che nei loro pezzi suonavano un ibrido tra rock, pop e groove funky venivano considerati baggy. Ben presto l’etichetta accolse un’altra tipologia di gruppi che alle scatenate ritmiche danzerecce, privilegiava un pop psichedelico di stampo revivalistico, ad ulteriore conferma di quanto in quegli anni si stesse vivendo una seconda “Summer Of Love”. L’esempio più eclatante di questo filone musicale furono gli Stone Roses. Cresciuti anche loro nelle pericolose strade di Manchester, tra le varie culture e sottoculture punk e skinhead dell’epoca, avevano nel frontman Ian Brown il personaggio di rilievo, uno degli autori di testi più intelligenti ed audaci nella storia della musica inglese, capace di affermarsi come una sorta di Morrissey leggermente più incazzato. A lui si sovrapponeva la formidabile coppia Reni-Mani, la miglior sezione ritmica rintracciabile in quegli anni a Manchester, e l’ottimo ed ispirato chitarrista John Squire. Disponevano anche loro così come gli amici Happy Mondays, di un ballerino aizza folla da presentare sul palco, che rispondeva al nome di Cressa. I Roses iniziarono la loro scintillante carriera live molto prima di diventare famosi, infatti furono tra i primi ad esibirsi nei warehouse party a Manchester, che erano dei concerti segreti tenuti in alcuni magazzini abbandonati della città con tanto di dj set al termine dello show. Il gruppo fu tra i primi a schierarsi contro Haçienda, tenendosene sempre alla larga non condividendone la politica e ciò non gli fu per nulla d’intralcio ai fini della loro avventura. Dopo aver rilasciato un buon numero di singoli di successo, nel 1989 pubblicarono il loro primo album omonimo, che ottenne un consenso di pubblico e critica pazzesco, designando gli Stone Roses come il vero e proprio successo commerciale del movimento Madchester, testimoniato dall’impressionante seguito di gente per i concerti all’Empress Ballroom di Blackpool, all’Alexandra Palace di Londra e addirittura dalle 30.000 persone presenti all’inascoltabile concerto tenutosi a Spike Island, Widnes, la terra dell’industria chimica, probabilmente il luogo meno indicato del mondo per poter mettere su un live. I concerti dei Roses avevano ormai preso la forma di un infinito rave, realtà nella quale il gruppo si calò alla perfezione grazie all’esperienza maturata agli esordi nei warehouse party.

Erano appena iniziati gli anni ’90 quando Top Of The Pops ospitò nella stessa puntata gli Stone Roses e gli Happy Mondays, consacrando definitivamente la musica e la città di Manchester.