Quelli che si ammiravano le scarpe – 1a parte – Le origini e il San Valentino di sangue

Dalla seconda metà degli anni ’00 la Gran Bretagna, sostenuta dal consueto inesauribile fermento musicale della scena indie, ha riproposto grazie ad una serie di gruppi derivativi, ma tutto sommato abbastanza personali nelle loro interpretazioni, un vecchio cavallo di battaglia, portato in piazza per poi essere ritirato nel giro di poche intense apparizioni, come vuole la tradizione musicale albionica. Ciò ha permesso anche qui in Italia una graduale riscoperta di un genere che nei suoi anni migliori ci è sempre rimasto piuttosto oscuro. Il fenomeno dello shoegaze fa capolino nelle classifiche inglesi dei primi anni ’90, approfittando del declino della scena madchester ma senza riuscire a raggiungerne la stessa popolarità mondiale, sovrastato in tal senso dalla clamorosa esplosione del grunge, movimento musicale americano esattamente contemporaneo a quello britannico, ma baciato da miglior fortuna commerciale. Un vero peccato se si considera che lo shoegaze poteva disporre di un arco di gruppi considerabili tra le migliori espressioni della musica pop-rock di quegli anni, autori di dischi che, per qualità e numero, nulla avevano da invidiare ai più illustri “Ten”, “Badmotorfinger”, “Dirt”, “Core” e via discorrendo. Tuttora, a parte i soliti tre grandi nomi che vedremo più avanti, dalle nostre parti si tende a relegare ai margini alcuni gruppi di grande importanza, nonché le reali origini storiche e geografiche di questo fenomeno musicale cui dedicheremo le prossime righe.

La paternità del genere viene comunemente fatta risalire agli scozzesi Jesus and Mary Chain e al loro album d’esordio “Psychocandy” del 1985, poco più di 35 minuti di sostanza eterea accompagnata, se non proprio sepolta, da muri di feedback e distorsioni che delineano una inedita struttura della forma canzone in bilico tra melodia e rumorismo. Tuttavia l’esperimento aveva a sua volta dei riferimenti, anche più vicini rispetto a quelli facilmente immaginabili dei Velvet Underground o degli Stooges. Infatti basterebbe riportare le lancette del tempo ad un paio d’anni prima, quando sempre dalla Scozia, un altro gruppo di debuttanti sul long playing, i Cocteau Twins, utilizzarono una formula simile in diverse canzoni dell’album “Garlands”. Proprio nella title-track è possibile ammirare il tipico giro di chitarra in distorsione, eseguito da Robin Guthrie, per contrastare soluzioni melodiche più sognanti (in questo caso la voce di Liz Fraser) che diventerà il marchio di fabbrica di tutto il genere. Giro di chitarra che a sua volta pare essere stato preso in prestito da quelli di Mick Harvey dei Birthday Party, che però erano suonati per disegnare tutt’altro contesto musicale. Sulla scia di queste ispirazioni nel 1987 si muoveranno i pionieristici lavori di Loop e Spacemen 3 che rispettivamente con “Heaven’s End” e “The Perfect Prescription” conferiranno una struttura precisa al suono monolitico e allo stesso tempo psichedelico del genere, a perfezionare il quadro si aggiungerà nello stesso anno “Three Times and Waving” dei Breathless che sarà un costante punto di riferimento per la frangia più dream pop dello shoegaze. Da non sottovalutare nemmeno l’importanza che hanno avuto gli sporchissimi riff di J Mascis con i Dinosaur Jr., ripresi innumerevoli volte da quei gruppi che rappresenteranno la parte più heavy del movimento.

Cocteau Twins, Jesus and Mary Chain, Loop, Spacemen 3, Breathless e una buona dose di follia/creatività. Mettete tutto in un recipiente, miscelate per bene e otterrete l’ingrediente giusto per trasformare un repertorio di pop ingenuo e spensierato in innovazione d’avanguardia. E’ riassumibile in questo modo la distanza che intercorre tra il primo cd dei My Bloody Valentine (“This Your Bloody Valentine”, 1985) e il secondo (“Isn’t Anything, 1988), il gruppo irlandese che attraverserà una rapida maturazione artistica grazie alla quale diventerà la figura istituzionalizzante dello shoegaze formando e definendo tutti i principali canoni del genere: chitarre distorte fino all’eccesso, struttura del suono prevalentemente incentrata sui feedback, muri di suono rumorosissimi, melodie protese verso sensazioni oniriche subordinate ad una forma canzone comunque riconoscibile ma che rimane intrappolata sullo sfondo dell’impalco sonoro messo in atto. Elementi che si aggiungeranno un po’ per volta in ciascuno dei vari EP che i My Bloody Valentine produrranno tra il 1985 e il 1988, fino ad arrivare al decisivo “You Made Me Realise”, primo vero e proprio esempio di shoegaze. La differenza che corre tra questo seminale lavoro e quelli dei gruppi citati in precedenza, che comunque rimangono tutti importantissimi per la nascita di questa e di altre correnti musicali (vedi post-rock) e per i gruppi che ne faranno parte, è data da una ricerca ragionata di tali sonorità in fase di produzione che prima non era mai stata tentata. Decisivo è stato infatti l’apporto dato da Alan Moulder, l’ingegnere del suono che ha prodotto i My Bloody Valentine e un’altra serie di pietre miliari per il genere, figura considerabile senza paura di esagerare, equivalente a quella che di Martin Hannett per il post-punk.

My Bloody Valentine 

Kevin Shields e Bilinda Butcher, voci e chitarre del gruppo, insieme a Moulder continuarono imperterriti nelle loro ardite sperimentazioni cercando di distinguersi ulteriormente dai gruppi che avevano cominciato ad imitarli. I frutti di queste sperimentazioni furono altri due EP, “Glider” e “Tremolo”, ormai forme musicali così estremamente avanzate da non poter essere quasi più riconducibili allo shoegaze. Ma mancava ancora qualcosa per raggiungere lo stato di perfezione cui il gruppo ambiva, quello di una musica rock completamente artefatta, priva di ogni elemento “live”. E qui a venire incontro loro ci pensa la provvidenza. Il batterista Colm O’ Ciosoig si ammalò poco prima delle registrazioni del terzo album. Fuori il batterista, entrò al suo posto una schiera di ingegneri del suono talmente ampia da poter mandare avanti una fabbrica. Il risultato fu “Loveless”, considerato unanimemente dalla critica uno dei più grandi album di sempre. Un dato è facilmente rilevabile al di là di qualunque opinione di merito sul prodotto: “Loveless” è un album che non assomiglia a niente di quello che è stato concepito e suonato prima nella storia della musica ed è stato solo lontanamente imitabile anche negli anni successivi, pertanto dovrebbe riuscire particolarmente difficile inserirlo in una qualunque indicizzazione di genere, shoegaze compreso, come però quasi sempre vien fatto. Tale suono era praticamente irriproducibile dal vivo, per cui leggenda vuole (ma chi è stato presente al concerto all’Estragon di Bologna lo scorso maggio può confermare che di leggenda non si tratta) che il gruppo nel tour successivo al disco, avesse riempito le proprie composizioni con effetti di distorsione a volumi così alti da superare la soglia della sopportabilità per un orecchio, in modo tale da mantenere intatta l’esperienza onirica del disco. I My Bloody Valentine sono oggi i più famosi, apprezzati e soprattutto ricordati esponenti del genere, ma dietro loro c’era ben più di un gruppo di imitatori a fargli eco.

Alan Moulder, produttore di My Bloody Valentine, Ride e Swervedriver