Techno, ritmi afrofuturisti

Siete mai stati in un officina meccanica? Vicino ad una pressa con magli da 10 tonnellate? Di quelle che stampano le portiere delle vostre automobili. Beh, hanno un ritmo, sempre uguale, tutti i giorni, tutti gli anni e anche un suono, profondissimo, deep… Detroit è stata la capitale dell’auto per tutto il novecento, si creseceva circondati dalle auto e dai giganteschi complessi industriali che le sfornavano, una metropolis dove i robot erano gli operai addetti alle macchine automatiche. Questi robot sempre più spesso avevano la pelle scura…

Robot: termine Ceco che significa uomo meccanizzato, coniato nel 1921 quando l’automazione industriale era agli albori ed aveva, sull’immaginario collettivo, un impatto simile a quello che l’informatizzazione ha avuto negli ultimi anni del secolo scorso. D’altronde cos’era un robot se non uno schiavo meccanizzato? La condizione di robot si avvicinava parecchio a quella degli schiavi africani importati dalle colonie, condizione che si propagò negli stati uniti fino al novecento con la segregazione razziale negli stati del sud. Negli anni ottanta i robot hanno soppiantato la manodopera, ormai per la maggior parte di colore, nelle fabbriche e, soprattutto ne hanno innalzato i ritmi.

Detroit era nera, anzi era piena di nigger- negri, come ancora erano denominati, il politically correct non era ancora arrivato. Tre di loro Kevin Saunderson, Juan Atkins e Derrick May ancora adolescenti, influenzati dall’ambiente metropolitano, affascinati dalla musica dei Kraftwerk tanto quanto dalla funky-disco che riempiva le discoteche, coniarono un nuovo genere, la Techno, che può essere inserita nel filone dell’afrofuturismo.

Afrofuturismo: termine di recente adozione che fa riferimento alle culture nere metropolitane che si muovono tra cinema, letteratura, fantascientifica, musica (hip hop e techno), grafica e produzione di videoclip. Il filo rosso in musica comincia con i deliri cosmico-psichedelici di Sun Ra, continua con le invenzioni Funk di George Clinton e dei suoi Parliament/Funkadelic per sfociare nella Techno.

La singolarita` della dance-music di Saunderson era il richiamo a quella tedesca: doveva maggiormente a Kraftwerk e Tangerine Dream che al rhythm and blues (diversamente, quindi, dall’house di  Chicago, e, ovviamente, dall’hip hop).

Atkins era un visionario, ma seguiva le orme di visionari che erano emersi prima di lui. La sua aspirazione era, infatti, comporre una musica futurista che univa il funk più astratto dei Parliament al synth-pop robotico dei Kraftwerk.

I Kraftwerk vengono citati continuamente dai pionieri della Techno, sebbene snobbati dalla critica musicale mainstream del periodo (siamo nel bel mezzo degli anni ’80, i loro dischi più influenti sono tutti degli anni ’70). L’immaginario che il quartetto di Dusseldolr aveva creato, musicale e visivo era infatti un concentrato fantascientifico. I suoni erano esclusivamente sintetici o trattati in modo da apparire tali, il loro modo di porsi in concerto, glaciali e robotici, in antitesi con la liturgia rock che vedeva un frontman e gli strumentisti a supporto. Le copertine dei dischi ricalcavano l’estetica costruttivista e i temi ricorrenti erano l’automazione, le macchine, i computer. Addirittura, nelle foto di copertina apparivano truccati in modo da riprodurre i calchi dei loro visi, cloni di un clone, automi di loro stessi.

Derrick May è uno dei padri fondatori della tecno di Detroit, un precursore delle sue tante varianti e in particolare dell’acid house. Il suo estatico, scheletrico, malinconico stile gli fece attribuire il soprannome di “Miles Davis della Tecno”. May riesce ad integrare all’interno della dance music, elementi psicologici e visioni futuristiche.

Tutti questi temi vengono fusi in un nuovo immaginario che per la prima volta vede ribaltati i ruoli. Se negli anni ’60 gruppi come i Rolling Stones avevano saccheggiato il Blues per riproporlo ad un pubblico principalmente bianco, in questo caso sono tre afroamericani che saccheggiano la musica autentica, tipicamente legata alla cultura occidentale bianca, per inventarsi una propria visione di futuro. Questo fenomeno avviene dopo decenni di battaglie legate al riconoscimento di parità di diriti civili, Martin Luther King, Malcom X, tanto per fare due nomi conosciuti ai più ma anche le Black panthers proprio a Detroit. Negli anni ’80, con il progressivo affievolirsi di questi movimenti, legati ad una retorica politicista, il movimento afroamericano di maggior successo è proprio la musica Techno. Anzi cesserà quasi subito la sua connotazione territoriale, Detroit, per contaminare tutto il pianeta. Raduni con migliaia di persone radunate da un manipolo di DJ spuntarono a Goa, in Inghilterra, a Ibiza, in Italia,  nelle metropoli sudamericane…

Da un altro punto di vista, la Techno è stata rivoluzionaria nella sua capacità intrinseca di immaginare un futuro. Parallelamente alla letteratura fantascientifica, che immaginava mondi a venire, più o meno distopici, i movimenti futuristi in musica, a partire dalle sculture sonore di Luigi Russolo negli anni dieci del novecento, erano sempre stati un’esclusiva bianca. Che futuro può infatti immaginarsi uno schiavo? Non solo, in campo editoriale un implicito razzismo ha domninato fino agli anni sessanta. Il blues veniva catalogato nei race recods e i Jazzisti venivano spesso dipinti come selvaggi geniali. La letteratura fantascientifica afroamericana emerge nel 1962 con Delany, negli stessi anni delle battaglie per i diritti civili e dell’accesso incondizionato al mondo accademico americano, prima riservato ai soli studenti bianchi.

Ma sono passati vent’anni, l’era Reagan istituzionalizza l’avanzata di una cultura conservatrice che ha spostato il discrimine di classe dal colore della pelle ad un semplice fatto economico. I diritti civili conquistati vengono in gran parte cancellati e in questo Detroit era all’avanguardia grazie alla delocalizzazione produttiva che lasciava migliaia di cittadini senza un reddito.

Playlist

Kraftwerk – The robot