La Brooklyn gotica dei Type O negative

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Cominciamo dall’epilogo: aprile 2010, Pete Steele viene trovato morto. Era il leader dei Type O negative, bassista, cantante e compositore. Senza di lui si sciolsero, non avrebbero più avuto significato alcuno.

Uno degli ultimi concerti degni di nota nel belpaese era fu nell’estate del 2003.

Il caldo era irragionevole, totalmente privo di costrutto anche considerata la stagione. Peter Steele era già sbronzo di vino rosso fin dal mattino; non esattamente il metodo migliore per combattere l’afa. La band al completo indossava enormi camici ospedalieri da coroner, naturalmente di colore verde; da pochi giorni era uscito in tutto il mondo Life Is Killing Me, ritorno discografico dopo quel favoloso disastro che risponde al nome di World Coming Down (probabilmente il “passo falso” più esaltante degli ultimi decenni), nel mezzo un truffaldino best of imbastito alla bell’e meglio e licenziato a tradimento da una Roadrunner più che mai ansiosa di sfruttare fino all’ultimo brandello di popolarità rimasta alla band, allora in netta fase calante dopo i fantastilioni di copie totalizzate da Bloody Kisses (sicuramente il “best-seller” più improbabile di sempre) e October Rust. Non è stato difficile guadagnare la prima fila, considerate le poche centinaia di presenti sparsi alla spicciolata, sfiniti dalla calura; hanno iniziato con Unsuccesfully Coping with the Natural Beauty of Infidelity eseguita per intero, tredici minuti, come dire se esiste un modo migliore per aprire un concerto fatemelo sapere. Alla fine di Love You to Death Steele ha canticchiato “Strawberry fields forever“; ha continuato a bere e a sudare e a bere ancora per tutta la durata del set e a un certo punto ha usato la bottiglia di vino come plettro. Hanno chiuso con Black #1 e al termine del pezzo Steele ha strappato via le corde dal basso una ad una, come un Joey DeMaio dei Manowar più grosso, più cinico e senza l’occhio di vetro. Ha detto qualcosa come “poteva andarvi peggio: avremmo potuto suonare di più“, e se ne sono andati in anticipo di dieci minuti rispetto alla scaletta.

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L’approccio con i nostri fù con Bloody Kisses. Era autunno, si andava verso l’inverno, tipo novembre; le giornate si accorciavano, fuori faceva freddo ed era sempre buio. Uno dei metodi migliori per alienarmi in quei lunghi grigi pomeriggi, forse il migliore che conoscevo, era mettere su la cassetta di Bloody Kisses mentre giocavo a Tetris sul GameBoy. Macinare livelli di Tetris con Bloody Kisses in sottofondo. Ho passato così tutto l’inverno. La cosa migliore di quel disco è che, ovunque ti trovassi mentre lo stavi ascoltando, ti catapultava in un altro mondo, glaciale, tetro, morbosamente intrigante, popolato da ombre inquietanti e sagome di cartapesta prese dai vecchi film della Hammer, o dal Frankenstein di James Whale. Pochissimi altri dischi hanno il potere di generare una visione d’insieme altrettanto nitida, contagiosa e perturbante; come i Suicide sono la più efficace rappresentazione in musica di New York (per molti versi l’unica possibile), così i Type O Negative lo sono stati per Brooklyn. Attorno a loro si venne spontaneamente a creare una micro-scena che tuttora resta l’incarnazione perfetta e irripetuta del Brooklyn sound: i Life Of Agony, che con i TON condividevano batterista, casa discografica (e, ehm, monicker di tre parole) e il cui primo album, l’epocale River Runs Red, era prodotto da Josh Silver (trastierista e braccio destro di Peter Steele nonché produttore e artefice principale, in studio, del suono inconfondibile del gruppo).Gruppi che provenivano dall’hardcore, che alla furia e alla veemenza dell’hardcore avevano col tempo sostituito la silenziosa rassegnazione, il malessere strisciante, l’(ab)uso di alcol o sostanze psicotrope nel vano tentativo di mettere in fuga i propri fantasmi. Nessuno c’è riuscito: i Life Of Agony sono implosi su sé stessi e soltanto un decennio più tardi pare abbiano guadagnato miseri brandelli di serenità. I Type O Negative hanno fatto World Coming Down.

Type O Negative

World Coming Down è il disco più sincero nell’intera carriera di Peter Steele, dove il termine sincero va inteso in senso letterale: i Type O Negative erano alle stelle e lui non ne voleva un cazzo, i Type O Negative erano stati l’attrazione principale dell’Ozzfest 1997 (oltre ai Pantera e, naturalmente, gli allora riformati Black Sabbath) e lui doveva suonare per due ore tutte le sere anche se era appena morto suo padre e a sua madre avevano diagnosticato un tumore maligno; soffriva di depressione cronica e intanto veniva continuamente intervistato con domande il cui standard del tipo era “dimmi il posto più strano in cui hai scopato“, o qualcosa del genere. Bloody Kisses e October Rust continuavano a vendere come il pane e la pressione che Steele – compositore unico del materiale del gruppo – avvertiva sulle sue spalle (da parte dell’etichetta, della stampa, dei fan, chiunque a pretendere un seguito non meno che immenso) era insostenibile. Era troppo per un uomo solo, anche se quell’uomo è alto più di due metri e ha il fisico di un gigante incazzato. Steele reagisce come può; prima va in vacanza in Islanda, poi rilascia un’intervista a Kerrang! dove dichiara di non avere il coraggio di suicidarsi, infine al costante abuso di vino rosso affianca (ma questo si verrà a sapere diversi anni più tardi) una passione sempre maggiore per la cocaina. La lavorazione del nuovo album ne soffre, Steele interrompe a più riprese le sessioni di registrazione, non è soddisfatto del materiale, non riesce o non vuole consegnare alla Roadrunner il tanto sospirato hit-single, la nuova Black #1; alla fine, tra rimandi continui e continui cambi di titolo copertina e tracklist, World Coming Down esce nell’autunno 1999. Il contenuto è spiazzante: nessuno slogan para-politico, nessuna implicazione psico-sessuale, niente strali contro negri, bianchi, suore o cicli mestruali, nemmeno l’ombra della caustica, inimitabile ironia che fin dai tempi dei fenomenali Carnivore aveva determinato il percorso artistico dell’uomo (in tutti i sensi: oltre alle canzoni si vedano anche la scelta degli artwork di copertina, i credits storpiati, i nomi di improbabili remix, le thank listallucinanti, i titoli improponibili, le dichiarazioni deliranti – non dimentichiamo che si tratta della stessa persona che per la copertina dell’esordio ha scelto la foto di un pisello in fica, e che sul retro di Bloody Kisses al posto della scaletta ha fatto stampare la scritta “Non confondete la mancanza di talento con il genio“…). Fino ad allora, non era mai successo di trovarsi di fronte a un Peter Steele così schiettamente introspettivo, brutalmente inerme, un’ininterrotta confessione a cuore aperto delle proprie paure, dei propri dolori, delle insicurezze che hanno minato una psiche incredibilmente contorta e che ora, finalmente libere da ogni (auto)condizionamento di sorta, esplodono con virulenza aumentata da anni di soppressione. Emblematici titoli e testi: Everyone I Love Is Dead, Everything Dies (sorta di involontaria rilettura di Hardly Getting Over It degli Husker Du, le cui liriche presentano notevoli somiglianze), praticamente persone e cose. Ci si trovò di fronte a un uomo debole, la cui fragilità era sotto gli occhi di tutti, così diverso dal netturbino beffardo che per anni si era preso gioco del mondo intero affermando di odiare tutti, o della necessità di uccidere tutti gli uomini bianchi come unica maniera di conquistare la libertà. Il Re era nudo, l’aura di carisma strafottente e noncurante che circondava la band inesorabilmente perduta. In un certo senso, sarebbe stato giusto se World Coming Down fosse rimasto l’ultimo album dei Type O Negative.

Invece continuarono,  Life Is Killing Me, era molto bello, ma i Type O Negative dei duemila non erano gli stessi dei novanta, lo sapevano loro per primi e lo sapevamo anche noi. Era come se Peter Steele si fosse in qualche modo svuotato dopo l’esorcismo radicale di World Coming Down; o forse, più semplicemente, le troppe mazzate lo avevano sfinito, prosciugato. Di lì a poco sarebbe morta anche la madre dopo una lunga malattia; ed è allora che Steele molla definitivamente il colpo. Life Is Killing Me segna la fine del contratto con Roadrunner, e terminato il tour di prammatica l’uomo si chiude in casa e concentra tutte le energie sul bere e drogarsi. Nel 2005 viene arrestato per aver massacrato di botte un tizio che ci aveva provato con la sua ragazza; non è ben chiaro come siano andate le cose, ma pare che al processo le sue sorelle testimoniarono contro di lui. Roba del genere. Sta di fatto che la deposizione delle sorelle si rivelerà determinante nel cacciare Steele in una fetida cella di Rikers Island per sei mesi e poi, appena uscito, in manicomio (una specie di equivalente americano dei T.S.O. in vigore qui da noi). Steele ricompare in pubblico nel 2007 in occasione della promozione di Dead Again, rilasciando una serie di interviste agghiaccianti in cui rivela molti dettagli della sua detenzione e apostrofa come “drug addicts” tutti i membri rimasti in vita della sua famiglia. La prigionia e il trattamento sanitario hanno lasciato segni evidenti e irreparabili, l’uomo è rovinato: bolso, gonfio, i movimenti incerti, un tremito costante gli deforma i lineamenti già abbondantemente provati, e gli occhi saettanti tradiscono un terrore senza nome e una tristezza senza fine. Vederlo in quelle condizioni fa male al cuore: è meno dell’ombra dello sconvolgente, bellissimo semidio che poco più di dieci anni prima, all’apice del successo e della forma fisica e mentale, si era fatto fotografare a cazzo ritto sulle pagine di Playgirl. Verrebbe da abbracciarlo fino a perdere la sensibilità degli arti, da circondarlo con una coperta come si farebbe con un diseredato a raccolto dalla strada; ma niente e nessuno può riparare al male che gli è stato fatto.

Pete Steele esprimeva malessere malcelato dallo humor nero e dalla grevità dei
titoli ma penso che i suoi disagi fossero profondi. Soggezione sessuale, senso d’impotenza, frustrazione, nichilismo. Se vendettero centinaia di migliaia di copie c’era un perchè. Comprensibile perchè, parole sue, l’unico metodo di autosoggettivizzazione era il suicidio. Non fece come Cobain, ci mise vent’anni ma riuscì. In questo modo i suoi testi,
supportati da maestosità musicale/sacrale acquistano tutt’un’altra prospettiva. Non era solo humor kitsch, era veramente un uomo intriso di nevrosi dalle quali era convinto non fosse possibile liberarsi. Le dinamiche mercificatorie dello starsystem fecero il resto.

Testi di Matteo Cortese