Ekatarina Velika: una voce per sei popoli



Il Rock e la Jugoslavia. Il Rock in Jugoslavia. Una storia di rara intensità che probabilmente meriterebbe uno spazio molto più esteso di quello che sarà offerto in questo blog o in una trasmissione radiofonica della durata di 60 minuti. Stiamo parlando di una realtà quasi sconosciuta al di fuori di quei confini, ma che è stata la voce di un decennio drammatico per la federazione jugoslava, sconvolta dalle incendiarie guerre civili che hanno messo in ginocchio il suo estesissimo territorio. La Jugoslavia che riceve la notizia della morte di Tito nel 1980 è infatti un crogiuolo di etnie e religioni diverse e inconciliabili, orfana dell’unica persona capace per trent’anni di tenere uniti in fila serbi e croati, ortodossi e musulmani. Di lì in poi l’unica voce ad unire una demografia così profondamente intricata sarà una scena musicale che si sarebbe confermata tra le migliori al mondo, se solo fosse stato possibile venirne a conoscenza, operazione che risulterà impossibile anche per noi vicini italiani.

Primi anni ’80, gli influssi del post-punk arrivarono anche in Jugoslavia, cosa che in tanti altri stati comunisti non accadeva, ma la forma di socialismo in vigore da quelle parti, si sa, era molto inconsueta. Nasce la Novi Val, gli Azra nel 1981 pubblicano “Sunčana strana ulice”, mastodontico doppio che potrebbe essere considerato il “London Calling” slavo per la disparata varietà di generi suonati e le implicazioni politiche dei testi, prevalentemente riferiti alla mancata accettazione del Patto di Varsavia da parte della Jugoslavia. L’anno dopo esce “Odbrana i poslednji dani” degli Idoli, a metà strada tra musica balcanica e oscurissima new wave, un incrocio inimmaginabile, riuscito, maestoso. Amici degli Idoli erano gli Električni orgazam con i quali pubblicarono insieme ai Šarlo Akrobata l’album “Paket aranžman”, probabilmente il manifesto musicale della scena Novi Val di Belgrado. Le influenze albioniche del periodo si facevano sentire anche al di là del contesto post-punk, c’era spazio per gruppi musicalmente meno rabbiosi e più delicati, come i croati Boa con le loro reminiscenze new romantic. E poi tanto altre scene floride, in Slovenia, in Macedonia, nell’ambito del movimento contro-culturale Novi primitivizam a Sarajevo per il quale forse urgerebbe aprire un capitolo totalmente dedicato ad esso. C’era l’assoluta urgenza di farsi sentire, per fare ciò questi gruppi scelsero quasi tutti la via anarchica del punk, unica soluzione per denunciare l’inadeguatezza di un partito comunista che sembrava aver fatto ormai il suo tempo.

Nel proliferare artistico della scena underground belgradese un gruppo su tutti fu capace di marchiare a fuoco non solo la storia musicale della Jugoslavia, ma di entrare di diritto nell’immaginario storico di un popolo dopo averne preso in prestito gli umori e i disagi di un’intera generazione per elevarne la voce.
1982. I Šarlo Akrobata si sciolgono, il cantante Milan Mladenović insieme al chitarrista Dragomir Mihajlović Gagi forma un nuovo gruppo, i Katarina II. La Katarina da cui prende il nome il gruppo non è niente di più che la ragazza verso la quale Mihajlović nutriva un amore mai corrisposto. Dopo vari cambi di formazione il gruppo accoglie tra le proprie file la tastierista Margita Stefanović e il bassista Bojan Pečar, oltre al batterista Ivan Vdović Vd. Al di là dei frequenti cambi di formazione che accompagneranno la loro carriera, i componenti simbolo del gruppo rimarranno Mladenović, Pečar e la Stefanović. Dopo aver pubblicato il primo album omonimo nel 1984, i Katarina II cambiano nome in seguito alla dipartita di Mihajlović, diventando gli Ekatarina Velika e Mladenović rimarrà l’unico chitarrista. Da qui esploderà tutto il suo talento compositivo riconoscibile nell’altro album omonimo del gruppo, stavolta però con il nome nuovo di Ekatarina Velika, uscito nel 1985. Non è un lavoro di transizione, è proabilmente uno dei più grandi album post-punk del suo tempo con una varietà compositiva impensabile per gli stilemi classici del genere, mantenendo, se non elevando esponenzialmente, un tono di funesto ed irrimediabile pessimismo.

Funesto ed irrimediabile pessimismo si diceva. Arrivati a metà decennio la situazione demografica jugoslava è tra le più difficili e preoccupanti che si possa immaginare. Solo la Slovenia poteva essere considerata un’etnia più o meno omogenea, in Croazia la questione era già parecchio diversa con la sua minoranza serba che costituiva l’11% della popolazione. Nelle due province autonome della Serbia, gli albanesi formavano la stragrande maggioranza del Kosovo e gli ungheresi erano una presenza ben stabile della Vojvodina. La Bosnia-Erzegovina era per tutti la “mini-Jugoslavia”, dove vi erano presenti molti musulmani, una consistente presenza serba e una minore percentuale croata. 150.000 erano gli abitanti montenegrini in Serbia, abbastanza per aggravare tensioni già in stato avanzato, alle quali si aggiungeranno l’insofferenza e la pressione che serbi e croati eserciteranno sui cittadini appartenenti ad altre nazionalità. La formazione degli Stati indipendenti in Jugoslavia si prospettava un cammino ripidissimo, che divenne drammatico nel momento in cui la crisi economica impattò su tutta la federazione, mettendo in evidenza come le varie repubbliche dello Stato Federale avevano avuto nel corso degli anni uno sviluppo diverso che aveva arriso a Croazia e Slovenia, ma che non era mai stato toccato da tutte le altre, toccando livelli sempre più miseri man mano che ci si avvicinava ai confini meridionali dello Stato. Ad Est dell’Europa il comunismo va in frantumi, deflagrano i contrasti tra il socialismo serbo di Slobodan Milošević e i partiti liberaldemocratici e nazionalisti in Croazia e Slovenia che richiedevano apertamente la propria autonomia.

Razmičeš zavese,
gledaš obećani grad
Svetla se pale
i tinja želja u tebi

Još uvek ti đavoli vire
iz rukava
I svaki nokat krije
otrov ljubavi

Trad.

You’re pulling the curtains apart,
Looking at the promised city.
Lights turn on,
And your desire smoulders.

Devils still hanging out,
of your sleeves.
And every fingernail hides,
the poison of love.

Con questi versi tratti da “Ti si sav moj bol” (Sei tutto il mio dolore) pezzo tratto dall’album “S’ vetrom uz lice” (Contro il vento) del 1986 si può riassumere da un lato la grandezza della malinconica poeticità che ogni verso degli EKV recitava, dall’altro il disagio irreprensibile e sofferto di 25 milioni di persone. “S’ vetrom uz lice” confermerà gli Ekatarina Velika come una macchina da anthem, che mai come in questo caso assume un significato totalmente diverso dal concetto di gruppo di starlette spara-singoli da classifica. La freschezza compositiva e il genio del trio Mladenović-Pečar-Stefanović porteranno gli EKV a variare di continuo il loro già articolato repertorio. Nel 1987 verrà pubblicato “Ljubav” (Amore), album che se in Serbia non è un’istituzione, poco ci manca. Il racconto disperato di Mladenović stavolta viene accompagnato da una colonna sonora di energico guitar rock, raggiungendo vette di lirismo ed intensità commoventi che vedono in “7 Dana” probabilmente l’apice assoluto di una carriera, e nella conclusiva “Tonemo” il punto più estremo della rappresentazione in arte della depressione jugoslava.
Nel 1989 si replica con “Samo par godina za nas”, in italiano “Solo pochi anni per noi”, ennesimo titolo così esplicativo da far sembrare anche superflua la ricerca di un’interpretazione. Il post-punk dei primi due album ricompare solo di rado, la strada intrapresa è ormai quella dell’alternative rock al quale si affiancano le più disparate contaminazioni musicali. Si alternano nuovamente pezzi tirati ed epici come la storica “Par godina za nas” e riflessioni più cupe e amare come nella straziante “Ona mi je rekla”. Similmente a “Ljubav” la copertina dell’album vede nella veste di protagonista la figura eterea di Margita Stefanović, rappresentando un drammatico contrasto tra la bellezza della tastierista e l’orrore di una guerra che sta per incombere, tra la voglia di un rinnovamento fresco e giovanile e la costrizione nei reticoli di un passato che sembra non dover finire mai.

“Dum Dum” è l’onomatopea usata dalle popolazioni slave per ricostruire vocalmente il suono di una pistola. E’ anche il nome con cui gli Ekatarina Velika intitoleranno il loro album del 1991. Anche in questa produzione si susseguono pezzi di grande ispirazione ed espressività, ma che come non mai stampano la preoccupazione generale di quel che sta per accadere, simboleggiata dallo splendido inno anti-nazionalista “Idemo”. Questo album acquisirà nel giro di pochi mesi un valore profetico. Tragicamente profetico.
Croazia e Slovenia scappano dalla federazione dichiarando la propria indipendenza, inizia la dissoluzione della Jugoslavia. In Serbia riemergono i più consolidati miti nazionalisti che l’hanno condotta per secoli alle più grandi disfatte della loro storia. La Croazia viene penetrata dalle truppe federali serbe facendo scoppiare la guerra civile tra l’esercito croato e i raggruppamenti armati della minoranza serba. Il bagno di sangue derivato dalla guerra si protese fino alla Bosnia-Erzegovina, dove le varie etnie che fino ad allora vi avevano convissuto esplosero in un devastante conflitto che portò alla morte di 200.000 persone. L’orrore si protrae fino all’impossibile. Ricompaiono campi di concentramento e deportazioni, si susseguono i massacri nelle piazze, i bombardamenti tra una città e l’altra. Una volta dissoluta la Jugoslavia, Serbia e Montenegro decisero di rimanere insieme dando vita nel 1992 alla Repubblica Federale di Jugoslavia (unione che durerà fino al 2006). Nel 1995 grazie all’accordo di Dayton termina il massacro in Bosnia che diventerà repubblica indipendente su base federale.
I conflitti tra Serbia e Croazia sono durati quattro anni, tra il 1991 e il 1995. Nel mezzo gli Ekatarina Velika pubblicano nel 1993 quello che è il loro album più deludente, “Neko nas posmatra”, impreziosito però dalla presenza del gioiello pop “Anestezija”, il loro pezzo di maggior successo in assoluto. Mladenović si prenderà una pausa dagli EKV andando in Brasile, ma la sua inesauribile ispirazione lo seguirà anche lì portandolo a formare gli “Angel’s Breath” un progetto di world music basato su un anomalo quanto straordinario sincretismo tra musica balcana, MPB, chitarrismi alla Robert Fripp e tanto altro ancora.

Purtroppo il destino si accanirà senza pietà sui tre componenti storici degli Ekatarina Velika in quella che si può definire una delle più grandi maledizioni mai abbattutesi su un singolo gruppo musicale. Milan Mladenović una volta tornato dal Brasile verrà colto da un cancro al pancreas che lo stroncherà in pochi mesi. Quattro anni dopo Bojan Pečar verrà trovato morto a Londra in circostanze che rimangono tutt’oggi ancora misteriose. Margita Stefanović pagherà il conto della sua fragilità emotiva in un calvario iniziato dalla depressione, proseguito con l’uso massiccio di droghe e terminato nella morte per HIV nel 2002.
Ad oggi in Serbia e in Croazia si possono trovare diversi monumenti, strade, edifici intitolati alla memoria di Milan. Gli Ekatarina Velika rimarranno nella memoria storica serbo-croata come i più grandi interpreti musicali, artistici e poetici del più drammatico frangente storico del ‘900 jugoslavo.