Daydream nation, l’apogeo del nichilismo newyorkese



Mi ha sempre messo un enorme malinconia Daydream nation, lo ascoltavo verso la fine del liceo, sentivo che la finzione dell’adolescenza stava per finire, la gioventù sonica era perfetta per esprimere in musica quei momenti che non riuscivo a condividere con nessun’altro… Eppure venivano da New York e non erano esattamente dei ragazzini, Kim Gordon, la bassista, nel 1988, l’anno di pubblicazione del disco, aveva la bellezza di 35 anni… Che otto anni di Reaganomics cominciassero a farsi sentire anche nell’Emilia meccanica? La ritmica ossessiva, il sovrapporsi di stili, le innumerevoli dissonanze, rendeva l’ascolto ostico, eppure erano orecchiabili, pop, facevano sempre delle bellissime canzoni, soprattutto in questo album, non ce n’era una fuori posto. Poi li vidi dal vivo, due ore di assalto noise psichedelico e di pogo feroce ed inarrestabile. Era musica per adolescenti scritta da adulti, oppure di adulti che riflettevano sul loro passatro. Musicisti che avevano attraversato la fine del sogno alternativo americano, quello della controcultura dei beat, del flower power, di Wharol, della New York decadente dei ’70. Tutti e tre i membri fondatori erano quelli che in Italia chiameremmo dei provinciali, approdati a New York per cercare la loro strada, innanzitutto espressiva/esistenziale, alla fine degli anni settanta, il periodo della no Wave, dove, nelle zone periferiche di Manhattan era possibile vivere in case occupate, l’eroina circolava in quantità e la promiscuità sessuale, forse il maggior scarto con la generazione precedente,  era comunemente accettata. Musicalmente il punk inglese aveva fatto tabula rasa di quasi tutte le esperienze musicali precedenti, con una violenza nichilista che era approdata anche oltreoceano: nessuna new wave, nessun futuro. I tre non venivano dal punk, frequentavano invece l’ambiente artistico “off” della grande mela ed erano cresciuti musicalmente alla scuola di un compositore sperimentale, Glenn Branca, già etichettato come artefice di musica fascista dal sempreverde John Cage, per il fatto di violentare le orecchie degli ascoltatori con amplificatori potentissimi. Subito dopo era arrivato l’hardcore, un fenomeno musicale esploso nel 1980 in tutti gli states, dove gruppi di giovani maschi pogavano ascoltando una musica violentissima. La formazione accademica dei Sonic Youth ha consentito loro di rimescolare tutte queste influenze in un’unica forma espressiva, rimanendone equidistanti.

Daydream nation suona malinconico perché tutti i sogni della gioventù sonica erano ormai svaniti nel 1988. E’forse una delle prime pubblicazioni del periodo a prendere coscienza che, né la chiesa della rabbia eretta dall’hardcore, né il nichilismo o tantomeno il sogno hippy avevano portato ad una Hypernation alternativa al sogno plastificato americano …Probabilmente, nella metropoli futurista per eccellenza, New York, i primi effetti della fine della società di massa cominciavano a farsi sentire di pari passo con la definitiva deindustrializzazione dell’area.

Quindi, via a demolire tutto di nuovo, con idiosincrasiche dosi massicce di ironia, malinconia e cinismo: la rivolta adolescenziale è capeggiata da un chitarrista (Glenn Branca?) e dal suo muro di amplificatori, non c’è alcun senso ma l’istinto di rivolta continuerà, per quanto fine a sé stesso sarà sempre preferibile all’individualismo imperante.

Tutto il disco sembra un concept sulla demistificazione dei miti della controcultura ormai giunta alla fine propositiva, Silver rocket si focalizza sullo sballo erotico/psichedelico con annessi e atterraggio. The sprawl,demolisce le vite marginale, da outsiders, tipico esempio di resistenza in una società di massa ormai, almeno a New York, in smantellamento. Il consumare, sesso o qualsiasi altro bene, per tentare di scampare alla noia.

Non che le prospettive di quegli anni fossero granché ‘cross the breeze è spietata nel dipingere la società degli yuppie, con la quale era ormai necessario fare i conti, con tutto l’odio sociale che essa comportava ma il sol dell’avvenire appariva sempre più una stella nera.

Tutto questo mentre l’esistenza stessa del gruppo si stava adeguando ai tempi. Daydream nation è l’ultimo album pubblicato per una piccola etichetta. Forse i Sonic Youth furono i più consapevoli delle nuove tattiche messe in piedi dalle corporation, finalizzate a sussumere anche le forme di resistenza come il Do it Yourself e l’indipendenza editoriale tipiche dei movimenti controculturali. I nuovi scout ingaggiati dalle grandi label, erano più giovani e inseriti in quel mondo e di lì a poco avrebbero messo sotto contratto tutti i gruppi di Seattle, mentre avevano già accalappiato figure mitologiche come Husker Du e Replacemnets, schiantandoli nel processo. L’amarezza della rinuncia alle proprie idee trasuda in tutto l’album, poteva apparire un patto col diavolo accettare un contratto major,”Now you think I’m satan daughter”, ma per i quattro, rimanere underground non era più uno strumento efficace di sopravvivenza.

 

In Daydream Nation i Sonic Youth si avvicinano come mai prima ad una forma canzone che strizza l’occhio verso il rock classico, prendendo però le dovute distanze dai clichè del genere. Un Disco curato nel dettaglio grazie all’attenta supervisione del produttore Nicholas Sansano che assemblò chirurgicamente le idee e i suoni prodotti dai quattro newyorchesi, un lavoro così meticoloso che conferirà loro una nuova dimensione. La durata dei pezzi aumenta decisamente, le jam ultradistorte fino ad allora assolute protagoniste della loro produzione, vengono anticipate da lunghe intro melodiche e succedute da dilatate code finali, lo spettro del progressive rock aleggia sulla gioventù sonica. Saranno loro stessi ad allontanare questo pericolo, grazie alla loro solita autoironia, giochi sarcastici effettuati sulla stessa copertina, apribile come le più magniloquenti opere degli Emerson, Lake & Palmer o degli Yes, o tramite citazioni più o meno sarcastiche sulla simbologia attraverso il quale ciascuno dei membri dei Led Zeppelin scelse un simbolo di autorappresentazione. Ma Daydream Nation nonostante l’ora abbondante in cui si dilunga, è un album essenziale dove levare o spostare qualcosa risulta operazione assai complicata. Non mancano strofe melodicamente ineccepibili e anthem da arena , ma la cornice ricamata attorno ad essi risulta essere un’orgia di suoni degni della più aggressiva tradizione punk bagnati qui e lì da furiosi sprazzi noise. Il risultato musicale è accostabile a quello di un elegante poema recitato da un essere umano in pieno delirio allucinatorio, figlio della lezione appresa dai Dinosaur Jr. appena un anno prima, il rumore come massimo potenziale espressivo.

Dai testi invece viene evocata una figura destinata a rimanere il simbolo della Generazione X, ovvero quella del perdente, lo “slacker”, il cazzeggiatore, colui che affida al pigro e trasandato musicista punk rock le sorti di una rivoluzione tutta da compiere (siamo nell’anno in cui Ronald Reagan lascerà la Casa Bianca), così come come conferma l’ideale di vita proposto in “Teenage Riot”, ma anche e soprattutto il penultimo pezzo dell’opera “Hyperstation”, titolo ispirato al racconto omonimo di un musicista noise rock costretto a sbattersi tra un club e l’altro dell’underground newyorchese, stesso racconto nel quale si può trovare l’espressione che darà il titolo all’album. A completamento dell’opera si aggiunge la solita vena trasgressiva di Kim Gordon che in pezzi come “Kissability” e “Eliminator Jr.” (ennesimo tributo/riferimento al gruppo di J Mascis) affronta i temi della sessualità e dell’identità di genere, ma grandiosa sarà anche l’epopea cyberpunk che i Sonic Youth richiamano in “Silver Rocket” e “The Sprawl”, chiari omaggi alla produzione letteraria di William Gibson.

Daydream Nation è uno degli album americani più importanti degli ultimi 30 anni, non si possono contare le band che ne hanno tratto ispirazione a tal punto da ricavarne non solo l’eredità musicale, ma anche un vero e proprio modello di vita.