Godflesh, apocalittici digitali


Justin Broadrick veniva dall’esperienza Napalm death. Era stato uno dei principali iniziatori di un genere, il Grind, che aveva abbandonato prima ancora che finisse sotto le luci della ribalta regalando il primo demo tape dei Napalm alla Earache records e abbandonando il gruppo. Non si diede per vinto, d’altronde era ancora giovanissimo, nel 1988 formò i Godflesh. Internet non esisteva che per pochi ricercatori universitari, non esattamente la schiatta di persone che Justin frequentava abitualmente. Il file sharing però era già una pratica molto diffusa grazie alla duplicazione e allo scambio postale di nastri a cassette. Già da adolescente era possibile venire a contatto con altri appassionati di musica estrema grazie alle fanzine e sempre grazie alla posta, scambiare nastri con altri adepti sparsi per il globo dagli USA al Giappone. Grazie a questi ascolti i Napalm death decisero di alzare il tiro e di diventare il gruppo più veloce di sempre, esasperando al parossismo i suoni dei Crass, che Justin conosceva bene, essendo cresciuto in una comune hippie nei dintorni di Birmingham. Ma i Godflesh erano un’altra cosa, se la ritmica non poteva essere velocizzata ulteriormene, poteva però diventare ancora più disumana rinunciando al caos generato da un batterista al massimo delle possibilita umane. L’avvento a basso costo di batterie elettroniche, computer come l’Atari ST o il Commodore Amiga e dell’interfaccia MIDI, aveva contribuito alla nascita dell’hip hop e dell’acid house inglese che proprio in quegli anni era esplosa in tutta l’Inghilterra.

Fu una rivoluzione, ben nota grazie a nomi come Aphex Twin o Autechre ma molto meno apprezzata in altri ambiti. La musica industriale utilizzava già da una decina d’anni sintetizzatori e batterie elettroniche ma l’avvento di computer e sequencer come Cakewalk o Cubase la tramutarono in qualcosa di esatto. Le cadenze erano scandite dal clock di un computer e passate agli strumenti attraverso un interfaccia pensata esclusivamente per fini musicali, la Musical Instrument Digital Interface. Grazie a questo protocollo un produttore o un musicista poteva controllare con un computer l’intero progetto sonoro, si passava dalla band al solipsismo rock. La tecnologia s’inseriva in una società che stava perdendo coesione sociale e ti consentiva di frammentarne le strutture superstiti campionandole in studio, magari in camera o in garage ma sempre in solitudine.

In un’area che aveva avuto una fortissima connotazione industriale, dove l’uomo per decenni si era dovuto adeguare ai ritmi delle macchine automatiche in infinite linee di montaggio tipiche della produzione su larga scala, finalmente un’interfaccia permetteva la fusione, musicale, tra uomo e macchina. Negli anni ottanta, la meccanizzazione industriale e l’informatizzazione dei servizi avevano fatto  dell’uomo un’eccedenza. In particolare le note scritte attraverso un protocollo digitale perdevano quelle infinite sfumature che connotavano gli strumenti acustici o elettroacustici. Il programmatore rimaneva un uomo in carne ed ossa ma ancora per quanto?

I Godflesh trasmettevano la loro corporeità, infatti continuarono a fare concerti laddove altri progetti d’avanguardia smisero, data anche la sempre più bassa affluenza di pubblico. Dalla frizione uomo-macchina traevano suoni e ritmiche che scatenavano l’energia primordiale ingabbiata per generazioni da molteplici meccanismi di cattura. Gli esordi furono difficili, l’assenza visiva di un batterista, sostituito da ritmiche da pressa industriale, scatenava probabilmente un senso di inadeguatezza e arretratezza negli spettatori, simile a quello che si prova davanti ad una nuova macchina. La possibilità di programmare le ritmiche consentiva di creare pattern ritmici complessi anche dal vivo, ai quali il duo si doveva adeguare. Anche le macchine hanno un’anima, avete presente Terminator?