Tom zé, il filosofo tropicalista

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Tom Zé fu ripescato da David Byrne sul finire degli anni ’80 dopo un periodo buio; se ne innamorò dopo aver ascoltato un suo disco, “Estudando o Samba” e ne rimase folgorato, tanto che telefonò ad Arto Lindsay per saperne di più su di lui. Sembra terminò la telefonata dicendogli: “Que país é esse, que tem um artista assim e que tão poucos conhecem?” (Che razza di paese è questo, che ha un artista così e così pochi lo conoscono?). Byrne prese un volo per San Paolo proprio per incontrare Tom Zé. Decise poi di far conoscere la sua musica negli Stati Uniti e produsse l’album del 1992 “The Hips of Traditions” tramite la sua etichetta, la Luaka Bop,

Tom Zé dimostrava meno interesse al viaggiare, restando ancorato piuttosto alle suggestioni del territorio e delle radici, ciò limitò il suo successo internazionale a differenza dei suoi conterranei tropicalisti che emigrarono in europa . La sua influenza fu forte come esponente del movimento tropicalista brasiliano, di stampo musical-culturale, appartenente agli anni Settanta del secolo scorso. Spaziando tra poesia, musica e teatro, subiva l’influsso anche della poesia d’avanguardia brasiliana, restando però maggiormente associato a quel genere espressivo musicale legato alla bossa nova, rock and roll, fado, che vedeva la sua nascita in Brasile alla fine degli anni Sessanta. Ai suoi esordi, il tropicalismo riguardava anche le arti visive. Uno dei concetti culturali fondamentali era l’antropofagia, ossia il cannibalismo culturale e musicale ispirato a tutti i tipi di generi capace di creare qualcosa di unico. Innovazione e tolleranza musicale erano il binomio vincente del movimento tropicalista al suo ingresso nella musica brasiliana degli anni Sessanta: la sua vita breve fu imputabile alla popolarità del genere musicale diffuso al momento, la bossa nova.

In una delle interviste presenti nel documentario “Fabricando Tom Zé”, realizzato da Décio Matos Júnior e girato durante il tour europeo del 2005, l’artista brasiliano parla molto di sé. Quello che l’ha salvato, dice, è il fatto di essere un pessimo compositore, un pessimo cantante e un pessimo strumentista. Per chi è pessimo, suonare un pianoforte o suonare una lucidatrice è la stessa cosa. “Non potete immaginare quanto siano vicini un piano e una lucidatrice quando chi suona è pessimo. Ma, dato che nessuno suona la lucidatrice, sono diventato l’unico”. E ride.

Questa è una delle affermazioni con cui Tom Zé si presenta. “Sono un uomo qualunque”, ripete spesso. Tom Zé esalta la sua totale incapacità canora sostenendo che proprio questa l’ha portato a inventarsi, a inventare qualcosa che non c’era, qualcosa degno di trasformarsi in musica.

Sarcasmo, ironia e sottile malinconia si mescolano in giochi di sperimentalismo che rendono la sua musica provocatoria e difficilmente classificabile. L’eredità tropicalista è innegabilmente ma il suo percorso musicale è stato molto diverso e sicuramente più travagliato di quello degli artisti di quella generazione.

La sua figura, il suo accento e la sua gestualità spontanea e burbera rendono i suoi concerti, in cui la componente di improvvisazione è fortissima – dicono ridendo i membri della sua band –, un vero e proprio spettacolo teatrale.

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