White Zombie e pornocultura



Intitolare un album “La sexorcisto” era una ghiotta esca per milioni di adolescenti in preda a turbe ormonali. Evocava due must have nella scorta di videocassette (lo streaming non era neanche lontanamente immaginabile) da scambiarsi con gli amici, quelle pornografiche e quelle horror. Non era solo una suggestione, mixate nelle tracce c’erano estratti da film horror, da un cult movie della sexploitation anni ’60, Faster pussycat kill! kill! kill! e da cartoni animati giapponesi. Era tutto materiale di cui non vantarsi, l’Esorcista l’unico titolo con una dignità artistica, il resto era ancora da rivalutare e Faster Pussycat era solo un film in bianco e nero con ragazze particolarmente poppute.

Solo dopo sarebbe arrivato Enrico Ghezzi e Fuori orario a sdoganare il tutto, horror di serie B compresi. I White Zombie, già dal nome, erano degli eccentrici anche considerando il contesto “alternative rock” di quegli anni, un perfetto prodotto di sottoculture musicali che con il termine di crossover andavano ad ibridarsi, metal, punk, funk, industrial. La sfrontatezza naif con la quale maneggiavano stili allora lontani, metteva tutto sul medesimo piano, pornografia e horror compresi. Chissà se Rob Zombie e soci avessero l’intenzione di togliere la pornografia dal rimosso collettivo e riabilitarla culturalmente? Nel 2016 però i tempi sembrano maturi per trattarla con il rispetto dovuto, ne parliamo questa sera con Claudia Attimonelli, co-autrice di Pornocultura, viaggio in fondo alla carne, per i tipi di Mimesis edizioni.

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