R.E.M. e il patto con il demone Warner

 

E’ l’aprile del 1989 quando gli R.E.M. fanno visita al Basement, club per adolescenti di Atlanta, capitale della Georgia, 65 miglia da Athens, la loro città. Il club è stato aperto l’anno prima per permettere ai giovani di poter ascoltare la propria musica preferita stando alla larga da tentazioni più pericolose. L’area di per sè è sempre stata una delle più depresse nel Sud degli Stati Uniti, con una università conservatrice e una scarsa apertura mentale da parte della cittadinanza, soprattutto per quel che riguarda la città di Athens, lì dove gli R.E.M. iniziarono la loro avventura suonando alle serate new wave nei gay bar, ricevendo ad ogni singola esibizione gli sberleffi e le pernacchie del pubblico quando andava bene, oggetti di varia forma e spessore quando andava meno bene. Ma in quella visita al Basement gli R.E.M. ci tornano da superstar a livello mondiale. Dal 1981, data in cui il gruppo attirò l’attenzione dell’etichetta I.R.S. grazie al singolo “Radio Free Europe“, al 1986, anno in cui rilasciano “Lifes Rich Pageant“, il loro quinto disco ma primo a raggiungere il milione di copie, le cose sono cambiate parecchio. Ad ogni modo gli R.E.M. affronteranno solo nei mesi successivi il più grosso cambiamento della loro trentennale carriera.

Ecco “Document”, primo album in cui Stipe abbandona la sua solenne cripticità a favore delle invettive politiche contro l’America da incubo di Ronald Reagan. Il volume delle chitarre viene notevolmente alzato, il gruppo promette fuoco e fiamme, ce li mette anche nei titoli e nei testi, come possono testimoniare “Fireplace” e lo storico “Fire!” ripetuto da Stipe in maniera ridondante nella magnifica “The One I Love”, una delle ballate più belle dei quattro di Athens. Ma le ballate in “Document” passano per la prima volta in secondo piano, lasciando il palcoscenico ad una versione R.E.M. inedita e rabbiosa. Il petardo viene lanciato da “Finest Worksong”, costruita sull’ipnotico riff di Peter Buck, andando a sfociare verso gli slap finali di Mike Mills. Pare davvero fuoco che arde. Subito dopo riappare la consueta e impagabile verve melodica degli R.E.M. con “Welcome To The Occupation”, ma questa volta l’etereo lascia spazio ad arpeggi amari e malinconici. E’ una pausa di riflessione, alla quale seguita una doppia feroce affermazione degli intenti proposti sin dall’inizio con l’accoppiata “Exhuming McCarthy”-“Disturbance At The Heron House” con un Michael Stipe vocalmente sempre più istrionico .La conferma che il cantante sia particolarmente ispirato è certificata con qualunque tipo di attestato grazie alla famosissima “It’s The End Of The World As We Know It (And IFeel Fine)”, scioglilingua folle e abrasivo per la metrica canora, nonché per il duo Mills-Berry costretto a fare gli straordinari. Nel mezzo spunta fuori anche una cover di “Strange” degli Wire, stravolgimento distorto di una canzone che era già distorta e stravolta nella sua versione originale. Nel finale arriva la parentesi folk, che questa volta assume le sembianze della bella e sottovaluta “King Of Birds”, come bella e sottovalutata è a parer nostro “Oddfellows Local 151” che chiude un album tanto giustamente incensato per la sua prima parte quanto eccessivamente criticato per la seconda. “It’s The End Of The World As We Know It (And I Feel Fine) e “The One I Love” diventano due singoli di successo, trasmesse non solo dalle solite radio universitarie che li aveva lanciati, ma anche dalla TV, tant’è che il videoclip di “The One I Love” sarà buon protagonista della rotazione giornaliera di MTV. Insomma, la I.R.S. comincia a stare stretta agli R.E.M. che vengono appetiti da più case discografiche che hanno adocchiato nei 4 di Athens una formidabile macchina spara-successi. Gli R.E.M. salutano mamma I.R.S. e approderanno sotto il tetto della Warner. Di quel passaggio se ne parla ancora oggi.

Dopo anni di militanza presso la I.R.S. , un’etichetta indipendente dalle spalle robuste, distribuita dalla Warner e fondata dal fratello del chitarrista dei Police, gli R.E.M pubblicarono nel 1988 “Green” direttamente alla casa madre con un cospicuo contratto, si parla di milioni di dollari… Probabilmente era una mossa che i quattro stavano studiando da tempo, già da “Document” la presenza di singoli “radiofonici” e il cantato di Michael Stipe in primo piano avevano portato a vendite cospicue avvicinandoli a modalità produttive commercialmente più redditizie. Gli R.E.M. sulle prime rimangono sul vago quando gli si chiede di spiegarne le motivazioni, anzi cercano proprio di evitare l’argomento, in seguito si dimostreranno abbastanza infastiditi da tutte le voci maliziose attorno alla questione e dichiareranno che con la I.R.S. non c’erano molte possibilità di espandere la propria visibilità internazionale.

Tutto l’album ha come tema l’ecologia, scontata nel 2014 meno negli anni ’80. Qualcuno ancora ci credeva, Green Peace cominciava a diventare un fenomeno ben visibile sulle TV di tutto il mondo e gli REM saltarono sull’argomento, come avevano già fatto negli album precedenti con altre tematiche dei tempi. Nondimeno la componente politica acquista sempre più spazio nei testi di Stipe, basti pensare che l’uscita dell’album coincide con il giorno delle elezioni presidenziali. In quel periodo il cantante è stato volontario attivo nella campagna elettorale del candidato progressista Michael Dukakis e a ridosso delle elezioni acquista degli spazi pubblicitari su diversi giornali pubblicando il seguente slogan “Non datevi alla macchia. Uscite e votate. Votate intelligentemente. Dukakis”  sfruttando un gioco di parole tra il nome di Bush ed il verbo “to bushwack”, ovvero “darsi alla macchia”.

Green” è l’album dalle sonorità più solari fino a quel momento della loro carriera per via della volontà del gruppo di lanciare un messaggio di speranza all’ascoltatore. Gli R.E.M. abbandonano le strutture asimettriche dei pezzi precedenti, così come i testi di Stipe lasciano il loro intraducibile ermetismo, appare per la prima volta nel booklet il testo di una canzone, “World Leader Pretend“, pezzo appunto sull’onestà e l’immediatezza espressiva, la stessa strada verrà intrapresa per pezzi come “Pop Song 89“, “Stand” e “Get Up“. Non mancano però deviazioni verso contesti più oscuri, come in “Orange Crush” pezzo il cui titolo è preso dal nome di un defoliante usato frequentemente in Vietnam, ancor più triste è forse la tormentata cronaca sui relitti umani descritta in “I Remember California“.

Nel tour che farà seguito all’uscita dell’album gli stand di Green Peace saranno presenze fisse ai concerti insieme ad alcuni attivisti di Amnesty International. Gireranno insistenti le voci su un presunto flirt tra Michael Stipe e Natalie Merchant, cantante dei 10,000 Maniacs (smentite dalla diretta interessata). Sarà sempre lo stesso Stipe a schierarsi contro la Savannah River Plant, centro produttivo del trizio, elemento fondamentale per la fabbricazione delle testate nucleari, e ad aprire una piccola polemica sulla censura dei videoclip, quando MTV oscurerà i seni delle ragazze che ballano con lui nel video di “Pop Song ’89”, Stipe richiederà volontariamente lo stesso tipo di censura sul suo di petto, dichiarando che “Un capezzolo è sempre un capezzolo”. Nel luglio del 1989 il gruppo. interrompe anzitempo il suo lunghissimo tour a causa del collasso (il primo) sofferto dal batterista Bill Berry. Dopo 8 anni senza sosta, gli R.E.M. si fermano per la prima volta al pit stop.

“E’ abbastanza sorprendente sentire delle ragazzine di quattordici anni che ti chiamano per chiederti:”Da Quant’è che siete insieme? Mi piace il vostro primo disco”. Al che, devi spiegare loro che il nostro primo disco è uscito quando loro avevano un anno”

Mike Mills

Un fenomeno da college radio che diventa un fenomeno radiofonico mondiale, gli R.E.M. con “Out of Time” conquistano addirittura il primato della Top Forty di Billboard, Erano i migliori amici di Replacements, Camper Van Beethoven, Robyn Hitchock and the Egyptians, ora guardano dall’alto Mariah Carey, C + C Music Factory, Enigma, Chris Isaak, Roxette, Whitney Houston…i fans che li avevano conosciuti come band underground non ci stanno e li abbandonano, il loro nome però diventa conosciuto e apprezzato tra milioni di persone, “Losing My Religion” e “Shiny Happy People” sono due singoli di successo clamoroso, le riviste di tutto il mondo se li contendono. Eppure “Out of Time” è un disco diverso non solo dalla precedente produzione R.E.M., ma per temi e complessitàsarebbe dovuto essere anche abbastanza estraneo a certe logiche mainstream. Tanto per semplificare il più possibile i termini di queste contraddizioni, basti pensare che a inizio 1992 i lettori di “Rolling Stone” mettono “Out of Time” allo stesso tempo tra i migliori e i peggiori 5 album dell’anno, stessa sorte che capiterà a “Losing My Religion” per la categoria videoclip.

Cos’è “Out Of Time” alla fine? A riesaminarlo dopo più di 20 anni appare sì come un album furbo e dotato di diversi hooks per l’ascoltatore, ma sembra arduo non riconoscerne un immenso valore poetico. Un album malinconico, a tratti estremamente depresso, sulla solitudine, l’isolamento, la perdita della fede. L’ottimismo di “Green” si è dissolto, con esso l’attivismo politico che aveva contraddistinto la band e soprattutto il suo leader sul finire del decennio precedente. Troppe pressioni,, troppi gossip, troppi fari puntati su di loro. Gli R.E.M. si rifugiano nell’acustico e non solo, per la prima volta allargano la propria varietà strumentale includendo nelle canzoni archi, clavicembali, mandolini, armoniche, organi. I testi si fanno esistenziali, la sensazione è che Stipe racconti sempre qualcosa di estremamente personale. In “Half A World Away” si parla di tramonti ineguagliabilmente tristi, vergogna e imbarazzo sono protagoniste di “Me In Honey“, altre ineluttabili e impietose analisi sulle relazioni interpersonali vengono a galla  nella splendida “Country Feedback“, persino la celeberrima “Losing My Religion” è un atto di rassegnazione verso cose più grandi della vita stessa. “Out of Time” nonostante le accuse di alto tradimento è un album di vivida e sofferta sincerità.

“Ho definito gli Anni Ottanta l’era di Reagan e del Gatto Garfield. Ora, sono finiti, il che, probabilmente, è un bene. Possiamo ringraziare i nostri vari Dei per questo. Da un punto di vista strettamente musicale, abbiamo visto il punk rock commercializzarsi, e la black music cominciare la propria ascesa. Da un punto di vista personale, penso che ne siamo venuti fuori un po’ in anticipo. Provo uno strano tipo di nostalgia. Chissà se la gente comincerà a indossare gli stessi vestiti tre anni dopo averli indossati la prima volta…Penso, però, che questo tipo di nostalgia immediata sia un riflesso dell’impatto che la cultura americana ha avuto sul mondo: le cose accadono totalmente rapidamente, che tagliano via delle parti della nostra vita. questa nostalgia immediata è una cosa davvero raccapricciante. Non voglio porre troppo l’accento su questi dieci anni – il decennio come un’unità separata – però la gente tende a farlo, e sembra funzionare fin troppo bene. E’ davvero strano come quei numeri possano cambiare a tal punto le cose. Mentre ci avviciniamo alla fine del decennio, sembra fare un’enorme differenza. Sono abbastanza ottimista riguardo gli Anni Novanta, e penso che un sacco di gente passerà il prossimo decennio cercando di educare sè stessa e di scoprire come viene mandato avanti il mondo. Gli ultimi dieci anni sono sembrati trenta. Forse i prossimi dieci sembreranno sessanta.”

Michael Stipe