Quelli che si ammiravano le scarpe – 2a parte – La scena che celebrava sè stessa

Dovendo stilare una classifica delle aree più insignificanti del pianeta, probabilmente quella della valle del Tamigi si piazzerebbe tra le posizioni più alte. La zona infatti è formata da diverse contee, attraversate prevalentemente da estensioni rurali fino ad arrivare al sudovest londinese e con due vere e proprie grandi città, Oxford nell’Oxfordshire e Reading nel Berkshire, importanti centri universitari che sono stati anche l’epicentro di una scena musicale in cui è emersa una serie di gruppi dalle connotazioni musicali molto incerte, alle quali la stampa specializzata dell’epoca non riusciva a fornire un’etichetta precisa, ma che di lì a poco vennero ricondotte alle sperimentazioni sonore degli irlandesi My Bloody Valentine. Ride, Slowdive, Kitchens Of Distinction, Thousand Yard Stare, Chapterhouse, Swervedriver, Lush, questi i nomi di quei gruppi, per lo più formati da studenti nel pieno dei loro anni universitari. Sembrava proprio il tempo di schierare una nuova formazione di “next big thing” pronte a sostituire le decadenti stelle del firmamento madchesteriano, invece toccò assistere a uno dei più singolari eventi nella famosa rincorsa all’hype della stampa musicale britannica. Testate importanti come il Melody Maker e il NME non solo sembravano poco interessate alla emergente scena della valle del Tamigi, ma a tratti vi si schierarono in atteggiamenti piuttosto irrisori e ostili. La scena venne ribattezzata dal MM “The Scene That Celebrates Itself”, facendo riferimento ad una assenza di rivalità tra questi gruppi, che anzi, fra di loro si conoscevano tutti, suonavano agli stessi festival ed erano seguiti dalla stessa fanbase. Poi quasi tutta l’attenzione andò ad indirizzarsi per le camicie di flanella d’oltreoceano, “Smells Like Teen Spirit” era alle porte. I celebratori di sé stessi non ottennero una gran fortuna commerciale, il “best-seller” del genere fu il secondo album dei Ride con le sue 200.000 copie vendute, veramente poca roba se si considerano le statistiche di vendita degli album nella storia della musica albionica. Nonostante la poca visibilità, tutte queste band per qualche anno furono fautrici di una grande produzione musicale, quasi tutte supportate da una etichetta discografica nata da pochi anni, la Creation del vulcanico Alan McGee.

Alan McGee

Oxford e Reading. Fu lì che si formarono due gruppi diversi dai quali si diramarono due modi diversi di concepire la musica della valle del Tamigi. A Oxford Andy Bell e Mark Gardener accompagnati dai geniali controtempi del batterista Loz Colbert, diedero vita alla furia chitarristica dei Ride. In quel di Reading invece una coppia di angeliche voci composta da Neil Halstead e Rachel Goswell costruirono la via verso un approccio che abbracciava scenari celestiali ma allo stesso tempo piuttosto intimi con la musica degli Slowdive. I due gruppi così apparantemente diversi fra loro, in realtà miravano ad un obiettivo comune: creare uno stile musicale etereo, atmosferico, paradisiaco, libero da qualsivoglia struttura, attraverso l’uso delle chitarre, ma soprattutto degli effetti applicabili ad essa. Non deve perciò stupire se, una volta aver ascoltato “Nowhere”, l’album d’esordio dei Ride (1990) ci si ritrovi addosso sensazioni simili a quelle provate dopo l’ascolto di “Just For a Day”, debutto degli Slowdive (1991). Due lavori che diventarono fulcro d’ispirazione per tante altre band, dai Kitchens of Distinction ai Pale Saints, dai Telescopes ai Moose, fino ad arrivare a quello che viene considerato il biennio d’oro della scena, 1992-1993, con una varietà di formazioni tale da poter parlare di un unico grande genere musicale che in quegli anni venne ribattezzato nuovamente e ancora una volta in maniera dispregiativa dalla stampa inglese. Infatti il NME coniò su misura il termine “shoegaze”, ovvero “fissascarpe”, sarcastico commento sulle performance live di questi gruppi, che passavano tutto il tempo delle loro esibizioni con lo sguardo rivolto verso gli effetti per chitarra posti sul pavimento, in virtù del fatto che proprio grazie ad essi era possibile creare sonorità così particolari e stranianti.

Si può parlare di una certa influenza dell’alternative rock americano anni ’80 su alcuni gruppi shoegaze che prendevano in prestito alcune idee utilizzate da Sonic Youth, Husker Du e Dinosaur Jr, per poi riapplicarle nella formula più consona al genere, donandole anche una certa freschezza. I Catherine Wheel sono stati forse quelli più bravi nel mettere in pratica questa interpretazione, con due album realizzati tra il 1992 e il 1993 (“Ferment” e “Chrome”) di splendida fattura e capaci di strizzare l’occhio alle tendenze musicali di quel momento storico. Ciò non è comunque valsa loro una grande fortuna commerciale perchè Rob Dickinson, il leader dei Catherine Wheel, rimarrà famoso solo per essere il cugino del più famoso Bruce Dickinson, però il loro vigoroso Wall of Sound con contorno psichedelico è stato a sua volta più di uno spunto per altre famose band dell’alternative americano come gli Smashing Pumpkins che per mixare le tracce di “Siamese Dream” si rivolgeranno ad Alan Moulder, il produttore che ha forgiato il suono di My Bloody Valentine e Ride, ma anche deus ex machina degli Swervedriver, secondo grande gruppo della frangia heavy dello shoegaze, altro evidente punto di riferimento per Billy Corgan & Co. Una menzione al merito andrebbe data sicuramente agli irlandesi Whipping Boy che nel loro album d’esordio “Submarine” espongono al quadrato tutte le influenze del noise rock e del post-hardcore americano congiungendole in un felice incontro con la neo-psichedelia britannica ottenendo un lavoro che spazia brillantemente tra tutte le correnti musicali dell’alternative anglo-americano dell’ultimo decennio.

L’arrivo del 1993 sancì il passaggio di testimone tra lo shoegaze e il britpop che riportò la musica inglese nelle classifiche di mezzo mondo, ma nulla avvenne in maniera brusca perchè il primo britpop fu pesantemente influenzato dall’estetica shoegaze come possono testimoniare “Modern Life Is Rubbish” dei Blur e soprattutto l’esordio omonimo degli Suede che fu la vera rampa di lancio per il movimento. Ma non solo. Molti gruppi shoegaze un po’ per sopravvivenza, un po’ per cambiare le carte in tavola, modificarono sostanzialmente la loro proposta, con casi come quello dei Verve che passarono dall’allucinato “Storm In Heaven” al mainstream rock di “Urban Hymns” nel giro di pochi anni. Altro caso eclatante è stato quello dei Boo Radleys, probabilmente il più originale in assoluto tra i gruppi inglesi dei primi ’90, autori di un gioiello di trasformismo musicale quale fu “Giant Steps”, ma che sotto precisi ordini dettati da una Creation sull’orlo della bancarotta, si videro in un certo qual modo costretti a virare verso sonorità pop-rock più classiche. C’era poi chi non voleva proprio saperne di sottostare a certe logiche di mercato. Gli Adorable di Piotr Fijalkowski erano forse uno dei gruppi shoegaze più promettenti dell’epoca e dal punto di vista commerciale sembravano avere un potenziale melodico al di sopra della media. Fijalkowski era però un personaggio estremamente arrogante e irascibile a tal punto da inimicarsi insieme al gruppo tutta la stampa dell’epoca per via di alcune presuntuose dichiarazioni, finendo così per essere snobbati. Alan McGee tentò di ripristinare la situazione, consapevole di avere tra le mani una gallina dalle uova d’oro, ma gli Adorable non vollero modificare di una virgola né la loro musica, ancora impregnata da una meravigliosa psichedelia, né i loro atteggiamenti verso i media. Basti pensare che il loro album d’esordio si sarebbe dovuto chiamare “Against Creation” corretto poi in “Against Perfection”. Quando la Sony acquistò il pacchetto di maggioranza della Creation, gli Adorable capirono che era arrivato il momento di levare le tende, sciogliendosi nel novembre del 1994. Quelle che sarebbero dovute diventare le pin-up della musica inglese piombarono nell’assoluto anonimato, ma Alan McGee riuscì comunque a completare la sua operazione “Saranno famosi” e a mandare avanti ancora per qualche anno l’etichetta grazie ad un non meno arrogante gruppo di Manchester, gli Oasis.

I luoghi comuni che descrivono lo shoegaze come un genere privo di eterogeneità e dinamismo sono una ulteriore conferma di quanto questa tipologia di musica sia poco conosciuta e martoriata da pregiudizi ormai cristallizzati nel tempo. Semmai lo scenario fin qui presentato potesse risultare ancora insufficiente per smentire certi stereotipi, sarà il caso di aggiungere alla lista quei gruppi che probabilmente proprio a causa della loro variegata capacità compositiva sono risultati ostici ai più tanto da passare subito in sordina per poi essere completamente dimenticati. Rispolverando i cataloghi dell’epoca ci si imbatte in particolari soluzioni di hard rock settantiano e reminiscenze madchester, come nel caso dei Sun Dial, in consistenti rispolverate della tradizione progressive britannica da cui vien fuori lo space rock dei Levitation e il flauto di memoria jethrotulliana grazie al quale i Blind Mr. Jones collegheranno due (ma forse anche tre) decenni di musica anglosassone. Non sono mancate nemmeno incursioni rivedute e corrette nella materia post-punk, tant’è che i Wonky Alice realizzeranno con “Atomic Raindance” l’unica versione possibile nei ’90 della leggendaria wave ottantiana, e forme musicali difficilmente inquadrabili ma assolutamente geniali come quella dei Boo Radleys che abbiamo già citato. Lo shoegaze tornerà a far parlare di sé a ventunesimo secolo già avviato, e grazie a sistemi di comunicazione più efficienti e ad un’altra covata di buoni gruppi, Horrors e Toy su tutti, otterrà una visibilità mediatica più che decente, soprattutto se considerata la storia dei loro poco illustri predecessori.

 

1a parte